Novità da Kathmandu: le prime impressioni.

 In SVE

Chissà se qualcuno di voi ha mai sognato di vedere le cime dell’Himalaya, i templi hindù o i sari colorati.

Sara è da poco arrivata a Kathmandu, la capitale del Nepal, per uno SVE di dieci mesi all’interno di un orfanotrofio femminile.

Dopo due mesi di stage in Joint, a Milano,  Sara è partita alla volta del Nepal arrivando a destinazione il 7 agosto.

Ecco cosa ci racconta a pochi giorni dal suo arrivo, le sue impressioni sono  interessanti e divertenti, ma anche degli utili consigli per chi sogna di visitare questo Paese.

 

kathmandu

1.       L’aeroporto di Kathmandu. Mentre scendevo le scalette dell’aereo sotto un pioggerellina monsonica e calda, il piccolo aeroporto fatto di mattoni a vista rossi e le case un po’ diroccate che sono riuscita a scorgere oltre le mura sono state il primo segnale di un aeroporto di una capitale sì, ma di un altro mondo. E le scimmie che saltavano nella sala d’attesa ne sono state la divertente conferma.

2.       Il traffico. Non ci sono semafori a Kathmandu e il guidatore siede sul lato destra della macchina. Nelle strade non ci sono buche, ma voragini. Le piogge di questi giorni hanno ridotto le strade in fango e tutti suonano il clacson come pazzi. Molti guidano con una mascherina sulla faccia per proteggersi dall’inquinamento.

3.       Verde. I monsoni portano fango (che ha già completamente ricoperto le mie scarpe da tennis – dovrei valutare l’idea di girare in infradito come fanno tutti qui) e moltissima umidità. Ma in compenso qui il verde è più verde del verde e le nuvole contribuiscono a renderlo ancora più intenso. Quando si diraderanno le nuvole, ci hanno promesso che vedremo l’Himalaya.

4.       La carta SIM. Sono andata a comprare una carta sim nepalese e ho dovuto compilare un modulo molto dettagliato nel quale mi chiedevano, tra il resto, il nome di mio nonno e le impronte digitali.

5.       Le bambine. Le bimbe dell’orfanotrofio dove collaborerò sono molto affettuose (sono delle tenerine). Con i bambini – come sempre – non sono necessari presentazioni e convenevoli. Mi sono seduta su un tappeto dove stavano in cerchio e subito mi hanno circondato facendo mille domande (le più grandi parlano inglese) o tirandomi la mano e contando i nei che ho sulle braccia (mi sono accorta solo dopo che loro non hanno nei). Prima di cena si ritrovano nella stanza dei giochi autonomamente e pregano (sono protestanti) cantando, suonando tamburelli e ballando (è stato commovente vederle la prima volta).

6.       Mani. Fin dal primo giorno mi hanno insegnato a mangiare con le mani. Le posate ci sono, ma si usano quasi solo nei ristoranti. Il piatto tipico è composto di riso, verdure (patate e ladyfingers e altre che in Italia non ci sono) e dahl. Si mischia il tutto con le mani, si fanno delle piccole palline che si afferrano con pollice, indice e medio e che il pollice spinge verso la bocca.

7.       Il vicinato. Ieri io e Irene stavamo tornando a casa e vedendo la nostra anziana vicina in giardino ci siamo girate a salutarla. Mentre ricambiava il saluto mi sono accorta che stava facendo la pipì da sotto il sari, come se nulla fosse. Poi si è voltata ed è andata  sciacquarsi i piedi con la canna dell’acqua.

8.       Acqua. Ieri sera per la prima volta, dopo cena, siamo rimaste senza acqua corrente. Siamo andate in giardino e abbiamo riempito dei catini con la canna. Abbiamo fatto bollire l’acqua per bere e per lavarci i denti e abbiamo conservato il resto per lavarci. Non avere acqua corrente significa non poter usare nemmeno il wc (non ci avevamo pensato inizialmente). Alcune azioni semplici possono diventare davvero macchinose, soprattutto se non si è abituati.

9.       Fare il bucato. Quando ho usato oggi questa espressione, Irene giustamente mi ha fatto notare che non la sentiva da anni. Eppure mi sembrava la più adeguata per descrivermi mentre in giardino, con la solita, provvidenziale canna dell’acqua  e il solito catino, insaponavo i miei vestiti, li lasciavo a mollo e poi tentavo – a fatica – di strizzarli. In quel momento ho capito perché la nonna di Calabresi considerasse la lavatrice la migliore invenzione del XX secolo (“Cosa tiene accese le stelle” – M. Calabresi).

10.   Il terrazzo. Per stendere bisogna salire sul terrazzo. Per farlo bisogna attraversare la casa dei nostri proprietari di casa, superare il tempietto che hanno dedicato a Shiva e Vishnu e, se si è fortunati, anche il fuoco che hanno acceso in cima alle scale per friggere dei buonissimi cookie fatti di acqua, zucchero, farina di mais e noccioline. Una volta arrivati sul terrazzo, guardarsi attorno è uno spettacolo di montagne e boschi verdi, di nuvole bianche, di sari coloratissimi, di bambini in divisa che tornano da scuola e di mucche sacre e galline che pascolano libere.

 

Sara Colombo

 

 

 

 

 

 

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