L’esperienza di Volontariato Internazionale in Kenya di Serena: l’empowerment e l’uguaglianza di genere

 In Volontariato internazionale

Serena ha partecipato ad un progetto di volontariato in Kenya, della durata di tre mesi. Qui il racconto della sua esperienza, con tutte le gioie e le difficoltà che la rendono tale.

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Ho trascorso tre mesi in Kenya e questi si sono rivelati molto ricchi ed intensi.
Ho avuto modo di vedere più realtà e credo che questa sia stata una fortuna.
Sbarcata a Nairobi il 26 aprile, i primi giorni sono stata ospite in un orfanotrofio. Città caotica, fiumane di gente e di pioggia; questa la mia prima stretta di mano con il Kenya. Da subito ho fatto i conti con l’assenza di piani, la confusione ed alcune piccole belle persone che in mezzo a tutto questo costruiscono instancabilmente qualcosa di bello.

In questo paese i ritmi lenti imperano e io mi sono trovata nella condizione in cui avrei voluto fare di tutto e di più e invece no. Qui sei costretto a far nulla, a far i conti con l’improduttività e a cercare di non fartene una colpa. La cosa paradossale è che ci sarebbero una marea di cose da fare, di cui parlare, da progettare ma va bene così. C’è tanta disorganizzazione ma nessuna preoccupazione.
Anche GVDA, l’organizzazione kenyota, non contraddice questi capisaldi per cui mi ritrovo i primi giorni a non avere nulla da fare. Osservo i colloqui che fanno in ufficio per i locali che vogliono fare scambi e progetti tendenzialmente in Europa o America e noto quanto siano diversi. Viene richiesto di parlare con genitori o parenti che possano confermare che si tratta di persone oneste che non stanno cercando di trovare modi per stabilirsi in Occidente (rischio alto a quanto mi dicono). Poca o nulla importanza ha il tipo di curriculum della persona e il progetto che vuole intraprendere.

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Personalmente mi ritrovo a dover cambiare progetto per il primo mese: quello per cui ho fatto domanda non è disponibile perché la persona che dovrebbe accogliermi è malata. Vengo dirottata su un altro progetto a favore delle donne, nel sud del Kenya. Per la precisione, Talek. Paesino remoto, confinante con una delle più grandi riserve naturali.
Una piccola grande famiglia maasai che ospita me e altri tre volontari. Una latrina in mezzo al verde, lavarsi con l’acqua piovana, mungere le mucche all’alba, pecore che pascolano, lingue sconosciute a cui cercare di abituare l’orecchio, ippopotami che sbruffano in acqua, donne che lavorano instancabilmente, pause per bere the, salutare facendosi toccare la testa dagli anziani, ululati notturni delle iene. Una quotidianità lenta e accogliente. Sono inserita in un progetto di empowerment per donne che producono manufatti tradizionali masai con le perline e in progetti di microcredito. In questo modo, le donne riescono sono autonome nel comprarsi pannelli solari per l’elettricità, taniche per raccogliere l’acqua piovana, pagare le tasse scolastiche per i figli e quant’altro.

Successivamente Narok, cittadina dove finalmente comincio il progetto di volontariato per cui sono venuta qui.
Einatoti Naretu Olmaa Coalition for Women è la realtà che mi accoglie. Tanta polvere per le strade, gente che mi chiama “musungu” (bianca) e mi vede solo in quanto tale, bambini che mi chiedono dolci o di comprar loro qualcosa. Purtroppo percepisco ignoranza, interesse nel relazionarsi nei miei confronti, come se ci fosse un velo tra me e l’altro, una lente per cui ai loro occhi sono diversa. E lo sono, in effetti. Ma sarebbe bello andare oltre. A volte mi fanno ridere (o piangere, a seconda dei momenti) per le cose che mi chiedono, sempre le stesse, instancabilmente. Si stupiscono se cammino e non prendo i mezzi, se lavo i piatti, se lavo i vestiti e la casa, se in Europa abbiamo patate e riso e tante delle cose che hanno qui. Per strada gli occhi sono sempre su di me, e a volte mi sento un trofeo da mostrare nelle foto. A volte non sono minimante presa in considerazione, altre totalmente in quanto bianca. Le differenze sono tante tra Talek e Narok per il semplice fatto che sebbene Narok sia un centro urbano decisamente più grande della piccola comunità di Talek, non sono abituati a vedere gente bianca e gli stereotipi che ci circondano sono tanti e difficili da scardinare in una semplice chiacchierata per la strada.

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L’organizzazione che lavora in città si occupa di empowerment a favore delle comunità maasai, concentrandosi in particolare sul rispetto dei principi dell’uguaglianza di genere, della salute e dell’economia sostenibile. I loro interventi nelle varie comunità prevedono incontri per sensibilizzare contro le mutilazioni genitali femminili (pratica illegale ma ancora diffusa), a favore dell’educazione scolastica di bambini (in particolare orfani), per la costruzione di latrine in zone e presso famiglie sprovviste e per regole igieniche di base. La direttrice della ONG mi ospita a casa sua ed è anche la fondatrice di questa piccola realtà che fa un grande lavoro. Avendo provato sulla sua pelle cosa voglia dire essere mutilata, costretta al matrimonio ancora minorenne e ad abbandonare la scuola, cacciata da casa dal marito, dalla strada è riuscita a cominciare con alcune donne a fare piccoli commerci fino a creare un gruppo di donne autonome e consapevoli delle proprie capacità e diritti.
La mancanza di educazione è ancora un grosso problema nelle realtà che ho visto in Kenya, ma ho incontrato persone consapevoli e capaci di condividere le proprie conoscenze con gli altri.
Se tre mesi inizialmente mi sembravano molto tempo, alla fine mi sono stupita di quanto siano passati in fretta, di quante cose ho conosciuto ma di quante ancora sarebbe stato interessante fare.

Serena

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